RITRATTI D'ARTISTA
(Frontespizio del catalogo della mostra)
Carlo Mattioli
Avevo allestito la personale di Mattioli sulla sua ultima produzione le Aigues mortes, si era nel 1979, non senza fatica a causa dei suoi continui ripensamenti, ma una volta dentro collaborò al massimo e come era sua abitudine, ne seguì l'andamento ...in diretta.
Durante la mostra quasi tutti i giorni era a Lucca e debbo dire che la sua presenza, la cultura e la caratura di grosso personaggio che era, gli facevano perdonare alcuni peccatucci come l'acredine contro tutto e tutti, quell'innata spilorceria che credo da sempre abbia convissuto in lui e soprattutto quel profondo odio verso i galleristi.
Diceva "vi sopporto perché non ne posso fare a meno" e noi si lavorava a tempo pieno per vendere i suoi quadri, valorizzarli e per farlo conoscere a chi, ed erano in molti fino agli anni settanta, escludendo naturalmente gli addetti ai lavori, nemmeno sapeva della sua esistenza. Comunque la sua presenza era per me una fonte inesauribile di nozioni, i suoi aneddoti non si contavano ed a modo suo, a condizione di non ledere suoi interessi, sapeva anche essere un buon amico.
Come era prevedibile questa sua personale smosse molta gente e non solo locale.
Quel giorno, contrariamente alle altre volte che aveva al seguito un folto gruppo di estimatori e pseudo amici, era venuto a Lucca con la sola compagnia di suo genero.
La personale allestita quasi un mese prima ormai volgeva al termine e forse per le buone notizie sull'andamento della mostra e gli articoli apparsi sui giornali che gli avevo appartato, tutti più che lusinghieri, quella mattina era su di giri ed a momenti anche scherzoso. Particolarmente con suo genero scambiava delle battute, alcune non proprio bonarie, anzi piuttosto velenose e cattivelle.
Comunque passammo la mattinata con un Mattioli in versione a me sconosciuta ed il maestro, forse perché ormai prossima l'ora del pranzo, di punto in bianco cambiò argomento e cominciò a spiegare all'ingegnere suo genero, che a colazione avremmo mangiato il miglior prosciutto esistente in Italia e di gran lunga superiore a quello di Parma. Quest'ultimo particolare, lo ritenni volutamente provocatorio, ma la risposta del marito di sua figlia fu esplicita e categorica "il prosciutto di Parma non ha rivali".
Io me ne stavo in disparte guardandomi bene di intromettermi nella vertenza che definirei una piccola schermaglia tra parenti, però ero anche curioso di vedere come sarebbe finita. Poteva sembrare quanto meno strano un argomento così futile, oggetto di discussione tra un artista ed un ingegnere, ma fui propenso a credere che questi battibecchi tra i due, dovessero essere abbastanza frequenti.
Arrivò l'ora di pranzo e a piedi ci avviammo al ristorante; una volta arrivati ci sedemmo al solito tavolo e come antipasto ordinai io per tutti, del prosciutto.
Naturalmente, anticipando i tempi, mi ero precedentemente raccomandato di far preparare tre piatti che appagassero oltre che il palato anche l'occhio e debbo dire che l'addetto ai lavori ci era perfettamente riuscito.
Prima ancora di inforcarne una fetta, Mattioli riprese ad elogiare questo salume, invitando suo genero a sbrigarsi e finalmente assaggiarlo. Continuò imperterrito sullo stesso tono, fino a quando nel suo piatto non ne rimase la minima traccia. Intanto il genero che non si era certamente fatto pregare, suo malgrado, dovette commentare favorevolmente l'oggetto di discussione e farne gli elogi, al che Mattioli, ormai certo di averlo in pugno, lo apostrofa "ed ora vorresti paragonare questo prosciutto con quello di Parma?".
Il genero questa volta si guardò bene dal contraddirlo, non so se per convinzione o per evitare ulteriori discussioni, comunque ritenni che finalmente la vertenza era chiusa. Terminammo con il caffè e nel chiedere il conto mi venne istintivo domandare al cameriere, che tra l 'altro conoscevo molto bene "Luigi mi levi una curiosità, ma questo prosciutto che anche oggi ci hai servito, da dove proviene, insomma dove lo comprate?". Mi guardò un attimo e non cercò neppure di dissimulare la sua meraviglia per la domanda che a suo giudizio non poteva avere che una risposta "ma è prosciutto di Parma".
Fu una delle rare volte che vidi Mattioli in serie difficoltà e credo proprio che avrebbe preferito sprofondare prima di ascoltare questa tremenda verità.
Avrà pensato "chissà per quanto tempo dovrò subire le frecciate di mio genero" ed io non potevo dargli torto; bastava guardarlo per leggere nella sua faccia quella certa aria di gioiosa voglia di rivincita che oltre tutto era più che giustificata.
Ma il peggio purtroppo, almeno per me, venne dopo perché la mia domanda, che riconosco provocatoria e anche un poco maliziosa, ma comunque chiarificatrice, non mi fu più perdonata. Quel rapporto di collaborazione che già da un certo tempo si era instaurato, oltre che una certa amicizia e stima reciproca, un poco alla volta andarono diminuendo a tal punto, che negli ultimi tempi a malapena potevamo considerarci dei semplici conoscenti.
Certo era nell'ordine naturale delle sue cose interrompere e cambiare continuamente le persone nei suoi rapporti di lavoro. Certamente se non ci fosse stato un pretesto, conoscendolo come ormai lo conoscevo, prima o dopo se lo sarebbe comunque inventato, ma quella storia anticipò e di molto i tempi o almeno, se lo preferite, così mi piace pensarlo. (fine anni 70.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Carlo Mattioli in un dipinto di Giuseppe Giannini - 1997)
Raffaele Carrieri
Quella sera all'inaugurazione della mostra di Mattioli non mancava proprio nessuno. Galleristi, critici, collezionisti e tra gli altri, con sommo piacere, vidi giungere il grande Carrieri suo e mio amico, che dopo aver salutato se ne uscì nuovamente per una mezz'ora, quel tanto sufficiente da obbligarmi ad un precipitoso ricupero a seguito di un malore che gli era venuto, mentre stava facendo alcuni acquisti in un negozio del centro.
Una volta rientrato in galleria, non perse tempo, guardò attentamente tutti i quadri mostrando un particolare interesse per il più piccolo che misurava cm.30x30.
Senza tanti preamboli "Questo sta per me" disse. Naturalmente ne informai Mattioli che non ebbe esitazione alcuna a rassicurarlo che avrebbe provveduto lui medesimo a fargli recapitare il quadro una volta terminata la mostra. Carrieri, pur facendomi chiaramente intendere che avrebbe preferito che il quadro fosse rimasto in galleria, onde poterlo venire a ritirare lui stesso a suo piacimento, forse anche temendo qualche ripensamento del maestro che non sarebbe stata alla fin fine una eccezione alla regola, comunque non nascose la sua soddisfazione, perché lo riteneva e non a torto, un piccolo capolavoro.
Nonostante quel leggero malore, volle ugualmente restare a cena commentando più per sé che per i presenti "solo per la compagnia perché dopo quello che mi è successo non posso certo mangiare".
Fu una serata memorabile. Eravamo una sessantina di persone e ci volle un salone tutto per noi.
Era venuto anche Carluccio, critico d'arte, all'epoca a mio avviso number one, accompagnato da alcuni collezionisti di grossi calibro tra i quali Zegna. Naturalmente non mancavano P.C.Santini che aveva curato il catalogo, Paloscia critico d'arte della Nazione, oltre vari pittori e l'allora titolare della galleria Giulia di Roma, di cui non ricordo il nome, venuto apposta per trattare con Mattioli una mostra, che poi fece qualche mese dopo.
Carrieri a cena era seduto vicino a me e Mattioli. Mettendo in pratica le sue buone intenzioni, chiese se poteva avere un brodino che puntualmente gli fu servito. Pensai con un pizzico di invidia, che sapeva stare alle regole e riusciva a controllarsi, anche se di piatti ne passavano sotto il suo naso, ma quello che seguì mi fece ricredere dato che quel brodino non fu altro che il supporto sul quale si adagiò ne più ne meno tutto quanto ... passava il convento e posso assicurare che non fu poca cosa.
Approfittai per consegnargli una foto di gruppo che era stata fatta la sera dell'inaugurazione e come la vide mi assicurò che l'avrebbe inserita in un certo scritto che stava per pubblicare. Non sono a conoscenza se poi l'abbia veramente fatto. Mi chiese pure chi fosse quella persona che non conosceva, l'ultimo a sinistra e alla mia risposta commentò "Non mi piace e poi cosa rappresenta? Meglio eliminarla". Non aveva tutti i torti perché il gruppo era formato oltre che da noi tre, da persone tutte più o meno addette ai lavori e il poco gradito ospite che aveva carpito lo scatto aveva commesso il grave errore di mettersi in posa nel posto più vulnerabile ... alle forbici di Carrieri che nel frattempo aveva trovato su un tavolo. Non gli fu difficile con un bel taglio ridimensionare quella foto e poi, palesemente soddisfatto, dopo un ultima occhiata, se la fece sparire in una delle capaci tasche del cappotto di pelliccia. (1978-8O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997
(R.Carrieri e C.Mattioli in un dipinto di Giuseppe Giannini 1997)
Renzo Vespignani
Lo avevo conosciuto a Firenze alla fine degli anni 60, ma solo successivamente ebbi modo di incontrarlo abbastanza spesso quando, avendo aperto la galleria, gli avevo commissionato alcune tirature di grafica.
Fu relativamente facile combinare il prezzo, ma entrarne in possesso non lo fu altrettanto, perché nel frattempo si era procurato una ferita alla mano destra e, almeno per un certo periodo di tempo, gli fu impossibile lavorare.
Ormai erano passati alcuni mesi e già disperavo di venirne in possesso, quando lo incontrai a Marina di Massa in occasione di una sua personale all'azienda del turismo. Effettivamente il braccio era fasciato e lo teneva al collo con una sciarpa, ma mi assicurò che ormai il peggio era passato e che se andavo nel suo studio a Roma nel giro di un paio di settimane, avrei avuto le tirature. Non so oggi, ma allora lo studio era situato sulla via Flaminia all'estrema periferia di Roma, al piano basso dell'ultimo palazzo sulla sinistra uscendo dalla città e dopo il quale il terreno adiacente formava alcuni avvallamenti incolti e disabitati.
Ebbi l'impressione di entrare in un bunker, piuttosto che nello studio di un artista, anche perché, per raggiungerne l'ingresso, era necessario scendere sotto il livello stradale; ma come fui entrato, mi trovai in un ambiente ampio e accogliente.
A destra c'era un bronzo di Augusto Perez, una figura in piedi, penso ad uno dei suoi ermafroditi, con un pene in erezione niente male e che Vespignani, lo capii dopo quando mi indicò dove appendere il cappello, lo aveva adibito ad attaccapanni. In fondo, sempre sulla destra, c'erano alcune grandi tele già abbozzate che mi disse facevano parte di un ciclo di opere su P.P.Pasolini.
Notai un lettino sul quale non capii bene cosa ci fosse arrotolato sopra, se persona o cose, ma non me ne preoccupai più di tanto anche perché attratto dal torchio a mano con il quale stampava le incisioni e dal tavolino sul quale erano poste alcune lastre di rame in attesa della morsura.
Come mi consegnò le acqueforti notai che aveva fatto delle vere cartelle, ognuna delle quali raccolta in un contenitore, in modo ammesso ce ne fosse stato bisogno, da impreziosire ulteriormente quei tre piccoli gioielli di grafica. Non aveva trascurato proprio niente. Certo mi consegnò un prodotto che avrebbe seguito la legge del mercato, ma non per questo non potei fare a meno di riflettere sulla differenza di comportamento di altri artisti i quali, nel modo con il quale ti presentavano il foglio inciso od il quadro, si aveva l'impressione di comprare più un elettrodomestico o una sedia, anziché un opera d'arte.
Parlammo a lungo di vari argomenti, di pittori comuni amici, di critici e naturalmente di arte. Come sempre fu molto gentile e quando stavo per accomiatarmi, mi propose di fare una corsa a casa sua che accettai di buon grado.
Uscimmo dallo studio, inserì l'allarme e ci avvicinammo alla mia macchina. Fatto pochi passi entrò in azione la sirena con un fracasso infernale. Lo vidi mettersi una mano sulla fronte e precipitarsi alla porta dello studio.
Disinserì l'allarme, aprì di nuovo la porta e subito ne uscì un ragazzotto mezzo assonnato. Era suo figlio e così appresi che, prima del mio arrivo, si era disteso sul lettino dello studio addormentandosi e suo padre, venendo via, se l'era dimenticato. Cose che capitano agli artisti.
Sarà che sono un sentimentale ma mi fece molto piacere, dato che non solo era la risposta alla domanda che mi ero posto, ma anche qualche cosa di più e le sue poche ma gentili parole mi fecero chiaramente intendere che in un angolino anche se il più recondito del suo cervello, il sottoscritto esisteva ancora. (fine anni 70.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Una pagina di grande grafica- Da una cartella di Renzo Vespignani- 1979)
Giacomo Soffiantino
Avevo un attività di abbigliamento e una piccola lavorazione di maglieria e fu per quest'ultima che un anno decisi di partecipare al Samia di Torino, che a quei tempi era la massima manifestazione del settore.
Eravamo impegnati in fiera solo al pomeriggio così ebbi modo la mattina di dedicarmi a quello che era la mia passione, la pittura. Avevo programmato per quei tre giorni un giro nelle varie gallerie e la possibilità di conoscere gli artisti del gruppo di Torino, che specie in quei tempi erano in auge. Saroni l'avevo conosciuto in altra occasione e tra l'altro gli avevo comprato alcuni fogli di grafica, perciò pensai di telefonare a Soffiantino. Lo trovai e si mostrò subito disponibile di incontrarmi; morale della favola, passai quelle tre mattine sempre nel suo studio.
Succede a volte che al primo impatto due persone simpatizzino e abbiano l'impressione di essersi sempre conosciute: così fu per noi due.
Andavo a trovarlo allo studio tra le dieci e le undici e mi intrattenevo sino all'una.
Lui mi raccontava della sua passione per la pesca alle trote, io a mia volta della pesca subacquea. Si parlava delle nostre famiglie, del nostro lavoro e manco a dirlo di pittura. Ci si capiva alla perfezione perché il suo mondo non era dissimile dal mondo dei pittori che frequentavo e che collezionavo. Prima di partire avrei voluto acquistargli un dipinto, glielo dissi, ma da persona corretta quale era, avendo a quei tempi il contratto di esclusiva con la Bussola, capii che insistendo lo avrei messo in imbarazzo e così non ne feci di niente.
La mattina della partenza, come promesso, andai a salutarlo e rimasi felicemente sorpreso quando, nel mostrarmi un piccolo quadro che aveva messo sul cavalletto, mi disse "se ritengo onesto non venderlo, non è detto che non possa regalarlo ad un amico". Sul retro ci aveva scritto una dedica, la più bella che abbia mai avuto da un artista "A Ulrico Guerrieri in ringraziamento del suo amore per la pittura, con affetto, Soffiantino".
Da allora non ci siamo più rivisti, ma il suo regalo è rimasto allo stesso identico posto dove lo avevo messo quel lontano giorno al mio ritorno a casa, in camera e credo proprio che ci rimarrà fino a che....insomma ancora per molto, ... almeno lo spero. (fine anni 60.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un dipinto di Giacomo Soffiantino - 1971)
Giuseppe Banchieri
Mi ero ripromesso, una volta che fossi andato a Milano e ne avessi avuta l'occasione, di prelevare Giannini dalla sua abitazione al VII° piano di Via Procaccini numero civico 47, e farmi accompagnare nello studio di Banchieri perché volevo assolutamente conoscerlo e possibilmente acquistare un suo quadro. Così una mattina, avendolo preavvisato, andai a prelevare il bimbo, così lo chiamavano i pittori del gruppo e dopo circa un ora ci trovammo a bussare alla porta dello studio di Via Garibaldi.
Chi avrebbe pensato che quel giorno avrei conosciuto una persona che sotto certi aspetti mi avrebbe condizionato ed influenzato su tante decisioni che ebbi a prendere sia come collezionista che, molto più tardi, come gallerista. Ma la cosa più importante fu l'inizio di una amicizia che, sia pure a fasi alterne, per motivi che non sto a spiegare, è durata oltre un trentennio, in pratica fino a pochi mesi dalla sua scomparsa, avvenuta nel dicembre del 1994.
Aprì lui stesso e dopo pochi minuti ci trovammo a parlare come se continuassimo un discorso interrotto la sera prima. Era brillante, convincente e con quell'accento fiorentino che sempre gli rimarrà, ispirava simpatia e ascoltarlo era un vero piacere. Non era invadente, dava spazio all'interlocutore e dopo appena pochi minuti ebbi la convinzione di avere di fronte un grosso personaggio oltre che un vero artista.
Senz'altro Giannini gli aveva accennato alla mia intenzione di acquistagli qualche cosa, perché in una zona dello studio aveva fatto una specie di vetrina, appoggiandoin terra ma ben visibili alcuni quadri e mettendone uno sul cavalletto, un interno-esterno dal titolo che ricordo benissimo fiori alla finestra e che aveva inserito in un enorme cornice. Un quadro di buon livello e per il quale feci subito un pensierino.
Era naturale che dopo una chiacchierata e una prima fase di approccio, stava a me fare la prima mossa e fu che ne chiesi il prezzo. "Centomila". Fu talmente veloce nel rispondere che capii quanta fatica gli fosse costato formulare quella cifra che forse neppure lui pensava di ricevere. Era come avesse avuto un rospo sul gozzo e che finalmente fosse riuscito ad espellerlo. "E' un bel quadro" gli dissi "ma sinceramente mi sembra caro" e Geppi, forse per giustificare la sua richiesta, "ma non vede com'è grande?". Infatti era una discreta misura ma messo in quella cornice, sembrava enorme.
Per essere più convincente su quanto stava dicendo, prese il quadro e lo alzò. La cornice che non era stata fissata con i chiodi, ma semplicemente appoggiata al dipinto, gli rimase ben salda tra le mani, ma priva della tela che, in equilibrio precario sul cavalletto e ormai spoglia della sua veste, fu terribilmente ridimensionata.
Dalla faccia che fece, credo che ai suoi occhi sia apparsa ancora più piccola di quella che realmente era. In quel l'attimo svanì nel nulla il piccolo espediente che aveva escogitato per ottenere qualche cosa di più sul prezzo, ma come spesso capita, il diavolo aveva fatto la pentola ma non il coperchio anche se, nel caso specifico, ebbi l'impressione che non era nuovo a queste gaffe.
La risata che seguì infatti aveva più che altro il sapore di commiserazione verso se stesso, come per dire "allora è vero, non ne azzecco proprio una". Comunque si sentì subito in dovere di aggiungere "effettivamente non è poi così grande" e come dovevasi dimostrare, il prezzo senza tanti problemi, scivolò alla metà della richiesta iniziale.
Con un exploit di questo tipo non c'era scelta; nel futuro o ci saremmo con molta cura evitati o saremmo diventati grandi amici. Optai per la seconda soluzione che fu pienamente condivisa e aggiungo che, di questa scelta, non ho mai avuto pentimento alcuno. ( Primissimi anni 6O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un dipinto di Giuseppe Banchieri - 1966)
Mario Schifano
Lo rintracciai telefonicamente ad Ansedonia dove si era trasferito per un certo periodo dato che, come successivamente ebbe a dirmi, era stato sfrattato dalla casa di Roma.
Poche parole per prendere un appuntamento e spiegargli la mia intenzione di organizzare una sua mostra in collaborazione con altra galleria di Firenze.
Ansedonia la conoscevo molto bene, mi ci ero fermato in più di una occasione, sia per vedere le ciclopiche mura di Cosa la prima castra romana, che per la celeberrima tagliata etrusca. Così, dalla descrizione che mi aveva fatto, non ebbi difficoltà per individuare la villa. Non avevo la certezza assoluta che fosse quella giusta, d'altra parte come potevo se non c'era indicazione alcuna, che me lo confermasse. Era posta molto più in basso del livello stradale. C'era un cancello aperto dal quale si accedeva ad una scala che dopo una dozzina di ripidi scalini, portava a quella che ritenni fosse la porta d'ingresso. Suonai all'unico campanello che vidi e dopo un paio di minuti di attesa, un uomo in vestaglia sulla cinquantina la aprì e senza tanti preamboli mi chiese "chi vuole?", "Il maestro Schifano". "Non c'è" fu la sua risposta e sparì chiudendosi dietro la porta. Rimasi, a dire poco, interdetto; c'era qualche cosa che non mi quadrava, ma non ebbi molto tempo per pensarci su che quasi subito riapparve la stessa persona, "ma lei è Guerrieri?»", "si", "allora si accomodi".
Questo fu il mio primo approccio con quel personaggio a dire poco singolare, che si chiama Mario Schifano.
Mi fece attendere in un salotto perchè momentaneamente
occupato in quanto, mi spiegò, lo stava intervistando un giornalista. Ebbi successivamente modo di leggere quell'intervista su un settimanale che parlava anche di un certo mercante o collezionista di Lucca che era in attesa per trattare una mostra ...
Per ingannare il tempo cominciai a curiosare guardandomi intorno e da una vetrata constatai che la villa era posta a mezza costa e nella parte più bassa, quella verso il mare, era servita da un altra strada che permetteva alle auto di entrare comodamente nel giardino della villa medesima. Subito sotto la porta a vetri da dove guardavo, c'era una grande terrazza in parte coperta da rampicanti con nel mezzo due grandi tavoli sui quali erano stese alcune tele che ritenni ancora fresche di colore ma, per quanto mi sforzassi, non riuscii minimamente a decifrare. I miei occhi si riempirono di verdi e azzurri dalle tante gradazioni e sfumature che dal punto in qui mi trovavo, facevano uno strano contrasto con l'azzurro del mare, che a sua volta si confondeva con quello del cielo.
Finalmente libero mi mostrò la sua disponibilità e senza tanti preamboli mi descrisse nei minimi particolari cosa aveva in mente per la personale come se fino a quel momento non avesse pensato ad altro.
Una volta conosciuta la capienza e l'ubicazione della galleria, decise per una trentina di quadri in tre soggetti sui quali stava lavorando in quel periodo: gli orti botanici, sempre verde, e Gigli d'acqua. Ecco, pensai, cosa rappresentano quelle tele sui tavoli.
Parlammo del catalogo, del prezzo, e fu decisa la data. Eravamo in Luglio, sarei venuto ritirare i quadri a fine Settembre, così avrei inaugurato la stagione con la sua personale. Mi parve apprezzasse molto quest'ultimo particolare e dato che non era un novellino ma un artista più che navigato e al massimo della sua fama, mi convinsi di avere di fronte un uomo di grande sensibilità, oltreché un sentimentale non senza un pizzico di romanticismo. Naturalmente sapeva nascondere molto bene questi, penso per lui, gravi difetti e in seguito, come ebbi modo di conoscerlo meglio, capii di aver colto nel segno nel giudicarlo.
Concordammo su tutto compreso un piccolo ritratto che mi avrebbe fatto in un secondo tempo che poi, con mia sorpresa, divenne un grande ritratto e nel consegnarmelo volle darmi tutte le indicazioni di come incorniciarlo. Al posto del vetro ci dovevo mettere il perplex di un determinato colore e per il timore che sbagliassi mi consegnò il campione e l'indirizzo di dove comprarlo a Milano. Naturalmente seguii alla lettera tutte le sue indicazioni e ne valse la pena perché il risultato fu di gran lunga superiore ad ogni aspettavita.
Alla data stabilita puntualmente andai a ritirare i quadri alcuni dei quali non erano ancora completamente asciutti e come mi vide, accennando con la mano alla mia tasca interna della giacca mi apostrofa dandomi del tu come per farmi intendere che ormai avevo superato l'esame e che potevamo considerarci amici. "Hai lì il malloppo?" Mi venne spontaneo da ridere perché effettivamente un certo gonfiore lo facevano tutti quei fogli da centomila anche se con molta cura li avevo distribuiti in tutte le tasche, ma era il suo modo imprevedibile di affrontare qualsiasi argomento, che sconcertava. Comunque confermai e facendo una pulizia generale delle tasche, consegnandogli i denari gli dissi: «controlla». Schifano si guardò bene dal toccarli, chiamò Pippo il suo assistente, amico, collaboratore, non so esattamente quale altra mansione potesse avere, forse tutte insieme e lo incaricò di prenderli in consegna. A me, sempre con la solita imprevedibilità disse: "sai non occorre contarli, anche se manca qualche foglio da centomila, poco male". Mio malgrado in quel momento pensai se avevo fatto bene, prima di partire,
a controllare con meticolosità, come nelle mie abitudini, l'esattezza della cifra concordata.
Successivamente, mentre ero intento a sistemare tutti quei quadri nel camioncino con il quale ero venuto, mi raccontò le disavventure che aveva avuto ultimamente con la polizia e come, per un certo suo vizietto, per poco non lo mettevano in gattabuia. Mi accennò pure allo sfratto che lo costringeva a rimanere ad Ansedonia magari tutto l'inverno fintanto che non avesse trovato in affitto un altra casa a Roma.
Ci fu un momento di pausa perché nel frattempo era arrivato un furgone carico di bottiglie di acqua minerale che furono tutte scaricate nel piazzale e Schifano, vedendo la mia faccia, si sentì in dovere di spiegarmi che così facendo almeno per un bel periodo sarebbe andato avanti. "Lo credo bene" gli dissi e maliziosamente aggiunsi di avere pensato, che contrariamente a Poppea che faceva il bagno nel latte, lui preferisse farlo con l'acqua minerale.
Non rispose alla mia freddura, invece con palese imbarazzo, evitando di guardarmi negli occhi, mi consegnò un biglietto e tutto d'un fiato mi disse: "è l'indirizzo di mia mamma che abita a Roma, non ha mie notizie da tanto tempo. Fammi il piacere, appena pronti i cataloghi della mostra, inviane uno anche a lei" cosa che feci con grande scrupolo e sommo piacere . (Estate - Autunno 1983.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un mio ritratto opera di Mario Schifano - 1984)
Giuseppe Giannini
Questa mattina essendo una giornata piovosa e monotona, costretto in casa e senza alcun impegno, ho cominciato a gironzolare per le varie stanze e una volta giunto in sala, mi sono soffermato davanti ad un mobiletto, un piccolo secrétaire. Ho aperto uno dei cassetti, il più nascosto, così senza un particolare motivo e subito avverto un leggero odore di muffa; sbircio dentro e ci scorgo un voluminoso pacco che non stento a riconoscere per corrispondenza.
Incuriosito anche perché così al momento non riesco a focalizzare l'eventuale o gli eventuali interlocutori, mi stendo comodamente su una poltrona, prendo le prime lettere, quelle che capitano e mi accingo a leggere.
Milano 15 Ottobre 1964 "Caro Guerrieri, sento con piacere che il mio quadro esposto a villa Guinigi è stato acquistato dalla galleria d'arte moderna di Lucca ...".
Milano 17 Febbraio 1965 "... aspettavo dei soldi da un mercante che non si è fatto vedere ...".
Queste lettere sono tutte scrupolosamente in ordine di data e mi è facile andare avanti nella lettura anche saltando qualche anno.
Milano 28 Ottobre 1968. Ora mi chiama per nome "Caro Ulrico ...".
Milano 18 Ottobre 1969. Mi parla di una certa mostra in programma e commenta facendo i dovuti scongiuri. Sorvolo su altre lettere, vado ancora oltre e arrivo alle ultime che sono del 1971. Non le ho contate tutte anche se la tentazione c'è stata, ma è stato sufficiente soppesarle per convincermi di essere abbastanza vicino ad un chilo di corrispondenza.
Mi costringo a leggerne alcune più attentamente e ne deduco che tutte parlano più che altro di cose personali, dalle nozze con Giovanna, alla nascita di Matteo. Ma il filo conduttore resta sempre lo stesso, il lavoro, le mostre, i problemi di tutti i giorni e un susseguirsi di avvenimenti che, messi assieme, fanno uno spaccato di circa dieci anni di vita vissuta a Milano.
Ci sono dentro, a volte palesemente, a volte un pò meno, ma che poi ugualmente affiorano tra le righe, certe paure, certe delusioni e anche, sia pure un poco alla volta ma sempre più insistenti, molte speranze e le prime certezze.
Quello che più di ogni altra cosa salta agli occhi è un grande amore per il proprio lavoro e una voglia matta di riuscire ad ogni costo in un mestiere di per sè difficile e nel quale non esistono esclusioni di colpi; per chi lo pratica, guai a non avere queste due prerogative oltre una volontà di ferro da poter reagire agli inevitabili momenti di sconforto. E' una scalata nella quale si conosce il punto di partenza, ma mai quello di arrivo: ad ogni scalino che si supera, il traguardo anziché avvicinarsi, appare sempre più lontano.
Un dato di fatto che salta agli occhi, è che nel bene o nel male io in queste lettere ne sono sempre coinvolto; il voluminoso incartamento, al di là del suo contenuto, è la testimonianza, aggiungerei la prova lampante, di un qualche cosa che va ben oltre una semplice amicizia.
Ma chi può essere questo personaggio, del quale solo ora mi sovvengo di averne taciuto il nome? La risposta è talmente ovvia e scontata che mi pare persino superfluo menzionarlo. Comunque è Giannini, il Beppino nazionale, insomma il bimbo, perché quando dal paesello si trasferì a Milano unendosi al gruppo di pittori del quale era il più giovane e che anni dopo il critico Valsecchi con una felice intuizione ne battezzò il movimento con il nome di realismo esistenziale, loro lo chiamavano proprio così, il bimbo.
Già nei primi anni sessanta era citato e segnalato come uno dei giovani maestri della pittura italiana, ed io lo conobbi proprio in quel periodo; debbo dire che da allora, sia pure con alterne vicende, non ci siamo più persi di vista.
Rileggendo quelle lettere ho modo di notare che a volte si firma con il cognome, a volte con il nome e altrettanto fa quando mi menziona. Desumo che tutto ciò dipendesse dall'umore del momento e da quello che gli passava per la testa. Se c'era qualche cosa che tra noi era andata storta, o comunque non come avrebbe voluto lui, usava il cognome, penso come autodifesa, un modo come un altro per mantenere le distanze. Se invece usava il nome di battesimo, allora senz'altro tutto andava bene, io ero in auge e se tra noi non c'erano nubi all'orizzonte, non c'era neppure motivo di fare le barricate.
Questa è l'interpretazione che mi diverto a dare, ma se penso a quante liti abbiamo avuto durante i trent'anni ed oltre che ci conosciamo ma anche a quanti altrettanti gesti veramente belli, allora non credo di essere poi tanto distante dal vero. Correggimi se sbaglio. Ora mi rivolgo direttamente, come se a mia volta ti stessi scrivendo e magari rispondessi ad una delle tue tante lettere.
Ripercorrendo a volo d'uccello quegli anni, mi viene in mente un vizietto che in un certo momento avevi preso, ma che in realtà io ho sempre ritenuto fosse una punizione che ti eri imposto come espiazione dei tuoi tanti peccati e forse anche per una discreta dose di masochismo.
Nel medioevo la gente si fustigava, tu invece avevi scelto il bere e non mi si venga a dire che ci provavi piacere, visto che era sufficiente un solo bicchiere per mandarti fuori dalle grazie di Dio e degli uomini, oltreché del tuo stomaco. Per fortuna non durò molto tempo. A questo riguardo, almeno per una volta, voglio fare il prestigiatore e scelgo dal mazzo dei tanti ricordi una carta nella quale, con l'aiuto della sfera di cristallo, leggo un simpatico episodio accaduto a Torre del Lago. Quel giorno con noi c'era anche Banchieri e avevamo deciso di pranzare in un ristorante del luogo in quanto nel pomeriggio saremmo andati a trovare il pittore Renato Santini, con il quale in precedenza io avevo preso un appuntamento per fargli vedere alcuni disegni di Viani. Proprio per questo motivo, mi ero accordato con Geppi di rinunciare al vino anche se sapevo che per lui sarebbe stato un grosso sacrificio, ma almeno così facendo, pensai di averti messo al riparo da ogni tentazione.
Arrivò il cameriere e ordinammo il primo, il secondo, ma niente vino. Sul momento tu non ci facesti caso, poi forse pensando ad una dimenticanza, a tua volta ne facesti richiesta ma senza esito. Ci aspettavamo una tua reazione e magari anche qualche parolaccia e invece non successe niente. Dopo qualche minuto avendo finito le sigarette, ti alzasti per andare a comprarle. Poco dopo, ti vedemmo ritornare con in mano un pacco, troppo grande per contenere le sole sigarette. Infatti come ti sedesti nuovamente a tavola, estraesti da quel cartoccio un fiasco di Chianti classico che, con aria di trionfo, deponesti nel bel mezzo della tavola.
Del seguito, ossia quello che successe nel pomeriggio nello studio di Renato Santini, preferisco sorvolare e non parlarne, certo che per questo silenzio, mi guadagnerò la tua eterna gratitudine ... (nel corso degli anni.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un mio ritratto opera di Giuseppe Giannini - 1994)
Piero Guccione
Ci conoscemmo esattamente nel 1964 in occasione di una collettiva a Milano dal promettente titolo Giovani maestri della pittura italiana ed a presentarmelo se non vado errato, fu proprio Giannini.
Nel anni che seguirono, non ebbi molte occasioni per incontrarlo e quanto meno frequentarlo.
Per una serie di circostanze, quelle volte e non furono poche, che capitavo a Roma per lavoro ed in particolare durante i due anni nei quali molto spesso ci venivo a trovare mio figlio Marco che era in collegio in un istituto non lontano da piazza S.Giovanni, non mancavo mai di cercarlo, in Via Flaminia dove abitava, poco distante dall'omonimo stadio, ma sempre senza esito. Sotto questo aspetto, credo per quanto mi concerne, sia stato il pittore che più ho cercato in Italia.
Un giorno il custode del palazzo o l'addetto alla portineria che fosse e con il quale ormai era subentrata una certa confidenza a seguito delle mie numerose visite, non so per quale motivo, ammesso che ce ne fosse stato uno, forse per premiare la mia costanza, si ritenne in dovere di introdurmi nella sua abitazione.
Avrà pensato "Considerato che questo povero diavolo non riesce mai a trovare Guccione, almeno veda la casa dove abita". Naturalmente aveva le chiavi e così ebbi modo tra l'altro di vedere i quadri che erano alle pareti e con soddisfazione non potei fare a meno di notare che certe sue preferenze in fatto di pittura e pittori, collimavano con le mie.
Quando in seguito ebbi modo di raccontargli di questo episodio, lo feci partendo da lontano, ossia descrivendo prima l'esatta ubicazione dei singoli quadri alle pareti. Naturalmente non riuscendo a farsene una ragione, non comprendendo come potessi conoscere certi particolari, si incuriosì è vero, ma anche, almeno questa fu la mia impressione, un poco si allarmò. Lo tenni sulle spine quanto bastava, poi una volta svelato l'arcano, ci facemmo sopra una bella risata.
Debbo dire che i casi della vita non mi hanno mai permesso di frequentarlo abbastanza per poterlo conoscere a fondo come avrei voluto e magari con il tempo poter diventare suo amico. Mi sarebbe tanto piaciuto perché dal momento che mi fu presentato, mi ispirò simpatia. Inoltre, più che altro per istinto, lo ritenni a mio giudizio, uno dei pochi personaggi di quel ristretto gruppo di artisti della pittura italiana, veramente interessante.
Ci incontrammo tanti anni dopo a Milano in occasione di una sua personale alla Bergamini e fu da quell'incontro che nacque l'idea di una collettiva da fare a Lucca, dato che nel frattempo avevo messo su la galleria. Fu l'occasione che mi permise di poterlo frequentare per qualche tempo, ma sempre molto poco. Comunque di lui debbo dire che mi è rimasto un bel ricordo.
Purtroppo non ho sue opere.
Non mi resta che consolarmi del ricordo di quell'immagine che ancor oggi ho ben impressa nella mente.
Fu quando ebbi l'opportunità di andarlo a trovare nella sua villa nella campagna di Scicli. Come feci quei due o tre scalini che separavano il giardino dall'ingresso di casa, prima di entrare mi fermai un attimo voltandomi.
Quel dislivello anche se minimo, fu sufficiente a permettermi di vedere non molto distante un lembo di mare che, fino a quel momento, era rimasto nascosto ai miei occhi.
Quell'improvvisa apparizione mi parve oltremodo suggestiva e di grande fascino; ebbi la netta sensazione che non era estranea, anzi direi era complice, ai tanti suoi dipinti con quelle sottili linee nell'azzurro del cielo e quei segni, che amerei chiamare brividi del mare.
Glielo dissi, lui senza rispondere sorrise, lasciandomi libero di sognare.
(1964.....fine anni 8O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
Floriano Bodini
E' piacevole, dopo quasi venti anni di lavoro svolto a stretto contatto con gli artisti, un po' per necessità, ma anche e soprattutto per diletto, rendermi conto di esserne uscito intimamente arricchito e consapevole di avere acquisito certi valori che prima ignoravo esistessero. Inoltre è pure piacevole che almeno con una parte di questi artisti, ci sia rimasta una buona e solida amicizia, anche se ormai da tempo, tra noi non esiste più alcun rapporto di lavoro.
Dico questo e penso a Floriano Bodini.
Lo conobbi tramite Giulio Bergamini, il quale un giorno mi chiese se ero interessato ad una mostra di scultura. Alla mia risposta affermativa, mi fece il suo nome.
Serietà e professionalità, questi sono i primi due sostantivi che mi vengono spontanei alla mente da come ebbi modo di avvicinarmi a lui e frequentarlo quel tanto da poter entrare nel vivo e avere l'opportunità di allestire quella mostra. Non so se all'epoca, Floriano a sua volta provò verso di me la medesima impressione, ma pensando al modo come mi trattò sin dal primo momento, direi di si.
Comunque ebbe inizio quel rapporto di collaborazione che inevitabilmente portò la piccola colomba che voleva volare, a spiccare finalmente il volo, in compagnia delle sue gemelle.
Dopo fecero seguito altri voli anche di pontefici e dopo ancora di animali ed ulivi di bucolica memoria.
In quel periodo, andare a Milano e fermarmi a colazione nel suo studio, mangiando magari un paio di panini in compagnia dei soliti due o tre suoi amici, per me divenne una piacevole abitudine, che non avrei mai cambiata con il più succulento pranzo nel miglior ristorante della città.
C'era sempre modo di parlare e soprattutto, facendo tesoro di tante esperienze precedenti, di ascoltare. Si perché avevo imparato questa lezione tanti anni prima e da allora ho sempre cercato di metterla in pratica. Saper ascoltare, è l'unico modo per apprendere sempre qualche cosa di nuovo e da lui ho imparato veramente tanto.
Dopo quei piccoli spuntini di sapore spartano ma per me gustosissimi, c'era la partita a scopone; un rituale non trascurabile. La posta in palio era una litografia. Naturalmente nessuno accettava di perdere, in particolare il nostro amico Floriano e come si arrabbiava quando ciò accadeva, ossia abbastanza spesso. Io al contrario, stranamente vincevo, anche se, con tutta onestà debbo riconoscerlo, ero il meno capace.
Se Floriano potesse leggermi, naturalmente direbbe che non è affatto vero, come non sarebbe vero se gli dicessi di essere a tutt'oggi in credito di alcune lito mai conteggiate, proprio a seguito di queste vincite a scopone. Mi pare di sentirlo "si, davvero? E' facile che proprio Guerrieri si sia dimenticato una cosa del genere ...".
Naturalmente subito dopo avrebbero fatto seguito quelle urla, divenute ormai famose e facenti parte integrante del suo repertorio. Ma questo era un modo tutto personale per manifestare la sua considerazione e simpatia verso l'interlocutore. Direi che quanto più urlava, più quella persona gli era simpatica e se effettivamente questo era il suo metro di giudizio, allora io ero all'apice.
Come quel suo attizzare, magari con paragoni e ammiccamenti. Con me non tralasciava occasione per farlo, figuriamoci se si fosse tirato indietro nella circostanza. Neppure per sogno.
Il paragone di quella mano protesa e avida, ma anche visibilmente attenta a ritrarsi in tempo utile, ossia l'asso piglia tutto, dell'industriale, la scultura che per circa un mese se la fece da padrona nella mia galleria, è sempre stato il mio incubo ed il suo cavallo di batttaglia.
Anche se l'ho capito con un certo ritardo, era tutto uno scherzo. "Amore che cresce", avrebbero detto i nostri vecchi ed io che a mia volta sono divenuto un vecchio, lo ripeto a chi avesse la ventura e la fortuna di incontrarsi con questo artista, "non lasciatevi infinocchiare dalle sue parole e da quel vocione, è tutto amore che cresce, si fa per dire".
Floriano non poteva mancare a questa panoramica a volo d'uccello, ma non tragga in inganno la brevità, perché al contrario, ci sarebbe stato tanto da dire, ma ci sarebbe pure il rischio di scivolare nella retorica, perché tanto è l'affetto e la stima che mi lega a lui sia come uomo che come artista e proprio per questo motivo, preferisco fermarmi in tempo.
(Dal 1979 ...)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un mio ritratto opera di Floriano Bodini - 1981)
Carmelo Zotti
Un sodalizio di alcuni anni, una amicizia lunga tutta una vita, ed un attimo per porre a tutto questo, la parola fine.
I nostri incontri quasi sempre avvenivano a Venezia città nella quale viveva. Era assistente di Saetti e insegnava pittura all'accademia. Il nostro luogo di ritrovo preferito era da Montin, una trattoria della quale serbo un buon ricordo, dove con poca spesa si mangiava molto bene e aggiungerei, altrettanto bene ci si dormiva.
I clienti abituali erano gli artisti e così tra l'altro, mi capitò di essere testimone agli amori ed alle gelosie di Rinaldo Franz Burattin per il suo Cigno Nero finché poi tutto non si risolse con un bel matrimonio.
Ci conobbi pure Geoffrej il pittore inglese, al quale dopo qualche anno organizzai una mostra a Lucca, come pure Licata che in seguito preferiva darmi gli appuntamenti al bar presso l'accademia per consegnarmi i quadretti che ogni tanto gli ordinavo.
Venezia era una città, o almeno così mi parve in quel periodo, piena di fermenti e ce n'era a sufficienza di motivi per avere il pretesto di venire più spesso possibile in questa meravigliosa città. Erano gli anni ed il grande momento di Virgilio Guidi e di Bruno Saetti.
Lo studio di Carmelo, se non mi tradisce la memoria era in un palazzotto di due piani. Al primo ci abitava Plessi, al quale successivamente, alla fine degli anni settanta, feci una mostra a Lucca. Erano i tempi delle spugne di emergenza per l'acqua alta a Venezia e del Plessi autobiografico, però all'epoca che lo conobbi mi sembrò piuttosto un pulcino bagnato, ma c'era il suo bravo motivo. Carmelo invece stava al secondo piano.
Molto spesso passeggiavamo per quelle calle che tanti anni addietro, negli anni quaranta, ai tempi del navale di S.Elena percorrevo quasi quotidianamente e questo per ben tre anni. Così non c'è da meravigliarsi se ci ritrovavo tanti bei ricordi, non senza un pizzico di nostalgia.
Come si incontrava uno di quei localetti di mescita, non saprei come altro chiamarli, Carmelo si fermava, mangiava un uovo sodo, ci beveva sopra un goccetto e via alla successiva fermata.
Una volta mi divertii a contarne ben otto di queste fermate e dopo desistetti; ma non Carmelo che come giungemmo al ristorante dove eravamo diretti, pensò bene, come antipasto, di ordinare qualche altro uovo sodo.
Avevamo fatto un accordo con il quale gli dovevo ritirare alcuni dipinti tutti i mesi. Io qualche volta andavo a Venezia da solo, altre volte con Maria, ma per la verità, molto spesso ritornavo a casa senza quadri. C'era sempre un qualche cosa che nel corso del mese gli andava storto ed in tal modo, con il tempo, si crearono dei vuoti, che divennero sempre più difficili da colmare. Forse anch'io avevo la mia parte di colpa, perché mai gli facevo premura.
Anche in quella occasione, prima di partire gli telefonai ed ebbi la conferma che potevo andare tranquillamente perché al mio arrivo, finalmente, avrei trovato un certo numero di opere. Pensai tra me, "forse questa è la volta buona".
Giunto a Venezia e preso il vaporetto, mi diressi al suo studio; come entrai nell'ingresso, apparve ai miei occhi una visone davvero singolare. Non riuscii ad afferrare di cosa veramente si trattasse, anche perché sulla porta dello studio c'era Carmelo, che con la sua mole mi impediva la visuale; notai anche un certo suo sorrisetto, ma non gli detti importanza, perché non avrei proprio saputo a cosa poterlo attribuire.
Ci salutammo come al solito con effusione e fu in quell'attimo che attraverso le sue spalle, dato che era stato costretto ad abbassarsi per potermi baciare sulle guance, che vidi dei drappi colorati attaccati a dei fili fissati in lungo ed in largo alle pareti dello studio. Sul momento non riuscii a giustificare e motivare la loro presenza, ma fu solo un attimo, perché mi rinvenni subito dopo, che si trattava delle tele dei miei poveri quadri, che erano state meticolosamente ritagliate a striscie e appese tipo bandierine. Tutto l'insieme faceva molto folclore e dava l'impressione di essere ad una festa paesana o di quartiere.
Il caro Carmelo, certamente non soddisfatto dei quadri che aveva dipinto, li aveva distrutti in quel modo veramente insolito, addobbandoci lo studio. Se con questo voleva far colpo su di me, aveva fatto centro.
Senza dare troppe spiegazioni, prese la cosa sul ridere, come una carnevalata, ma io, pur senza darlo a vedere, ne fui favorevolmente impressionato. Pensai quanto gli sarebbe stato più facile e soprattutto conveniente consegnarmi quei quadri, anche se non erano proprio di suo gradimento, evitando in tal modo un'ulteriore aggravio del debito che in quel periodo aveva verso di me.
Ma era fatto così il nostro Carmelo sempre imprevedibile e direi pure, sempre disponibile; era quello che si dice un bravo ragazzo ed io aggiungo un buon amico.
In tanti anni che ci conosciamo tra noi non c'è mai stato uno screzio. Siamo stati anche diversi anni senza vederci, ma poi al primo incontro, era come se ci si fosse lasciati un minuto prima.
Io non so cosa pensi di me, ma per quanto mi riguarda ne serbo un buon ricordo anche se poi è successo un qualche cosa che forse non è stato ben compreso o da me non sufficientemente chiarito.
Peccato che nella circostanza, a Carmelo non sia venuto in mente, che a volte si creano situazioni tali, che una persona può anche avere il pudore oltreché il buon senso di non raccontare. Pazienza.
Comunque tanti anni non si possono cancellare e tanto meno scrollare di dosso, come si può fare con un fardello troppo pesante da portare. Per me non lo è affatto ed intendo averlo sulle spalle ancora per molto tempo.(Fine anni 6O primi 7O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un mio ritratto opera di Carmelo Zotti - 1969)
Mino Maccari
Un giorno mi trovavo a Castelnuovo Garfagnana dove l'amico Carlino aveva organizzato una delle tante feste in onore di Maccari.
In attesa dell'ora del pranzo, in compagnia del maestro stavo curiosando dentro un vicino negozio di antiquariato, quando Maccari, avendo notato per terra in un angolo un piccolo sarcofago d'altri tempi, mi dice "guarda che bello, sarebbe proprio adatto per me, è della mia misura" naturalmente alludendo alla sua non eccelsa statura.
Senza ombra di dubbio era appartenuto a qualche ragazzo morto prematuramente almeno duemila anni prima.
Io gli feci garbatamente notare, cercando pure di imitare il suo stesso umor, che anche se lui non era proprio un gigante, però con tutta la buona volontà di questo mondo, non avrebbe mai potuto entrare in quel sarcofago, né da vivo né da morto. Al che Maccari replicò "lascia passare ancora qualche altro anno e vedrai".
Fu l'ultima volta che lo vidi, perché purtroppo non gli fu concesso molto tempo ancora perché si potesse avverare quanto aveva asserito.
Non era certo un argomento come suol dirsi dei più felici, ma per lui non faceva differenza perché le sue battute, anche se pungenti non mettevano mai in serio imbarazzo l'interlocutore.
Se è vera, come è vera la frase che inventò al tempo della marcia su Roma trasformando il grido dei fascisti di o Roma o morte con o Roma o Orte, la dice lunga sulle sue qualità di poter dire impunemente tutto quello che voleva, perché lo sapeva dire, ma quello che più importava, lo sapeva pure raccontare e fissare sulla tela o incidere su legno.
In possesso di un simile materiale, era mia intenzione farlo fruttare al massimo, soprattutto come immagine, prima che inevitabilmente andasse disperso nelle varie collezioni e l'unico modo era di pubblicare tutto e fare una mostra. Naturalmente mi sarebbe stata molto utile la collaborazione di Maccari, perché, anche se parlavano da sole, quelle opere non erano mai state autenticate.
Fu allora che gli chiesi un appuntamento che mi accordò nella sua villa del Cinquale.
Dalla faccia che fece trovandosi davanti quasi cinquanta pezzi, quando magari pensava si trattasse dei soliti due o tre quadretti, non ci furono dubbi che fu una vera sorpresa, ma anche direi, che non fece il minimo tentativo per nascondere il suo scontento. Avrà pure pensato all'effetto deleterio se tutte queste opere fossero state messe sul mercato senza criterio, non tanto per il possibile contraccolpo sui prezzi, perché mi era nota il suo poco interesse al denaro, ma ritengo più che altro, per un fatto di immagine.
Con un filo di voce e di per sé già poco convincente, mi dice "guardi che ho l'impressione siano opere per lo più ritoccate e contraffatte". Ressi il colpo sia perché ero sicuro del fatto mio, ma anche perché avevo capito che voleva prendere tempo; altrimenti una simile affermazione non so come l'avrei accettata, era da infarto.
Comunque io non mi scomposi più di tanto e replicai "allora non mi resta che rispedirli al mittente" e ne feci il nome che sapevo conosceva benissimo, aggiungendo subito dopo, "oltre che il rimborso chiederò i danni. Pensare che le volevo pubblicare tutte e farci una mostra".
Era quello che voleva sentirsi dire ed infatti, dopo, fu un percorso tutto in discesa.
Venne pure all'inaugurazione rimanendo talmente soddisfatto della mostra che mi fece il regalo di un bel quadro e pure a Maria dette una litografia sulla quale, tanto per non smentirsi, ci scrisse "alla pacifica moglie di Guerrieri".
Solo volle levarsi una sassolino dalla scarpa e sul catalogo mi fece stampare una sua dichiarazione autografa nella quale, oltre che l'autenticità dei dipinti, ne dichiarava la provenienza, ben sapendo che quest'ultima affermazione, non sarebbe stata gradita a chi di competenza.
In seguito ebbe a dirmi che erano tutte opere che aveva regalato tanti anni addietro, aggiungendo "come dovevasi dimostrare, vatti a fidare degli amici". (Anni 8O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un dipinto omaggio di Mino Maccari - 1982)
Franco Sarnari
Un giorno mi fu chiesto cosa ne pensassi di un certo pittore, per il quale non è che avessi poi tanta stima come artista. Io non volevo pronunciarmi, ben sapendo per esperienza, che me ne sarei fatto un ulteriore nemico; però neppure volevo essere tanto falso da tesserne gli elogi, come comunemente è cattiva abitudine fare, in simili circostanze. Me la cavai con una battuta. "Cosa ne penso? E' un bel ragazzo".
Perché questo preambolo? Per il semplice motivo che come conobbi Franco Sarnari, la prima impressione che ebbi, fu di trovarmi di fronte ad un bel ragazzo. Lo posso dire con tutta tranquillità, perché sono perfettamente cosciente che mi si può tacciare di tutto, ma non certo di avere certe tendenze. Ma a differenza del caso di cui sopra, aggiungo che come vidi i suoi quadri, il bel Franco non resse al confronto.
Fu alla fine degli anni ottanta che ci incontrammo a Padova poco prima dell'inaugurazione della biennale di Venezia alla quale era stato invitato. Mi apparve come uno di quei personaggi che ispirano un immediata simpatia e fiducia, perciò non mi fu difficile comunicare con lui e combinare una collettiva assieme a Guccione e Tista Meschi, riunendo in tal modo tre amici che si erano frequentati a Bari, negli anni giovanili.
Tanto mi parve simpatico e disponibile, quanto lo trovai duro e inamovibile su tutto ciò che riguardava il suo lavoro. Non concedeva niente al caso ed era talmente sicuro di sé, che dal modo in cui ne parlava pareva facesse del suo meglio per scoraggiare anche quei potenziali acquirenti, che mi capitarono in galleria. Non scendo in particolari perché non è la sede adatta, e tanto meno mia competenza.
Sono stato un paio di volte a trovarlo nella sua bella casa in Sicilia non distante da Scicli ed anche nella scelta del luogo dove andare ad abitare mi parve fosse stato per lui determinante il voler nascondersi, l'eclissarsi dalla vista di tutto e di tutti, come una sfida ai suoi interlocutori ed estimatori; come dire, "se mi volete, venite a cercarmi, ci sono i miei quadri che parlano per me".
Una volta mi fu chiesto da un collezionista un quadro di un particolare soggetto, che però faceva parte dei suoi temi preferiti. Gli telefonai, ne feci richiesta assieme ad altri due o tre, ma mi rispose sembrandomi pure un poco scocciato che i soggetti li decideva lui, non li faceva su ordinazione.
Come era mia abitudine, non replicai, anche se a mio modo di vedere, non credevo di aver imposto un bel niente; non l'avevo mai fatto con nessun pittore, figuriamoci con lui e la richiesta non mi pareva avesse varcato quei confini, oltre i quali non è lecito andare. Comunque tutto finì li.
Una cosa che mi è sempre rimasta impressa, era il modo come compilava il listino prezzi: un poema oltreché un vero rebus. Quando me capitò uno tra le mani e ci detti una sbirciata, rinunciai subito a capirci qualche cosa. Ho sempre pensato che impiegasse più tempo a fare quello, che non i suoi quadri.
Però debbo dire, dulcis in fundo, che è sempre stata una persona squisita. Anche se da buon toscanaccio ho voluto scherzare un poco e Franco spero non me ne voglia, aggiungerei, che quelle sue piccole contraddizioni, tutto sommato, contribuivano non poco, a renderlo ancora più' simpatico e perché no, anche più personaggio.
A volte mi capita di rimpiangere la sua compagnia e chissà se un giorno non lontano, non mi decida di andarlo a trovare. (seconda metà degli anni 8O.)
(Racconti senza ritorno-I maestri-1997)
(Un dipinto di Franco Sarnari - 1990)
Fabrizio Plessi
Lo conobbi tramite Carmelo Zotti che me lo aveva presentato in occasione del suo ritorno a Venezia dal viaggio di nozze, dato che abitava nello stesso stabile dove Carmelo aveva lo studio. Non vorrei sbagliarmi, ma credo proprio che si fosse nella seconda metà degli anni sessanta.
La prima impressione fu di trovarmi di fronte ad una persona piuttosto timida e riservata.
In seguito ebbi modo di nuovamente incontrarlo, sempre a Venezia, prima che Carmelo cambiasse studio. In quegli anni con Fabrizio non ebbi alcun rapporto di collaborazione, anche se il suo lavoro già allora mi incuriosiva e non poco. Sempre dalla stessa fonte ebbi a conoscere un periodo della sua vita, di come ebbe inizio la sua attività di pittore che ritengo, oltrechè piacevole, sia un punto di merito a suo favore. Casualmente, conobbe un americano che veniva spesso in Italia e che comprava dipinti che poi rivendeva negli Stati Uniti. Fu cosi che iniziò tra i due un rapporto di collaborazione che più il tempo passava, più dava l'impressione di consolidarsi. Galeotto, oltre che la sua abilità, era il soggetto che dipingeva che, per contratto, doveva rappresentare paesaggi e personaggi del selvaggio West. Fatto sta che non gli ci volle molto tempo per poter raggiungere una certa notorietà a seguito della quale, la richiesta di dipinti lievitò non poco. Plessi, impaurito del suo stesso successo, forse pensando al suo futuro di artista, si trovò nella necessità di prendere una drastica decisione.
Cominciò ad ignorare la richiesta sempre più pressante di dipinti, fiducioso che alla fine il suo datore di lavoro si sarebbe stancato. ma si sbagliava. Cosa fare? Pensa e ripensa gli venne l'idea vincente: All'ennesima richiesta di opere, come risposta fece seguire la comunicazione che il pittore Fabrizio Plessi era improvvisamente deceduto. Solo così potè liberarsi e iniziare la sua vera carriera di artista.
Un giorno chiesi ad un amico gallerista di Milano, all'epoca tra i più noti, cosa ne pensasse di Fabrizio Plessi, la sua risposta fu di una chiarezza e brevità sconcertanti. Mi disse : "E' un genialoide".
Passarono gli anni. Da collezionista divenni Gallerista e come potevo non pensare a Fabrizio Plessi? Ci incontrammo e e in due balletti concordammo una sua personale a Lucca . Era rientrato da poco da New York dove tra l'altro, aveva fotografato tutte le prese d'acqua della città, così per ridere alcune migliaia. Era il periodo di Plessi acquabiografico e dei suoi progetti sull'acqua, delle spugne d'emergenza ecc.ecc.
Fu una mostra memorabile per l'afflusso soprattutto di giovani, incuriositi e anche a dire il vero, frastornati nel vedere la sua immagine, che con le forbici tagliava l'acqua.... da alcuni fu sollecitato a spiegare, ma il sottoscritto guardando in faccia questi ragazzi, capivo che le sue risposte lasciavano agli interlocutori il dubbio se le sue spiegazioni erano serie o se stava prendendotutti loro per i fondelli. Insomma fu uno spasso. Anche se il risultato fu magro ( vendetti solo due dipinti dei ventiquattro che gli avevo acquistato e manco a dirlo l'acquirente fu un idraulico... mio amico). per quanto altro, fu una bella e simpatica serata.
Per diversi anni i dipinti rimasero invenduti nel mio magazzino, quando una sera alla Finarte di Milano fu battuta una sua opera che un gallerista di Torino seduto proprio davanti a me l'acquistò. Morale della favola successivamente a questo gallerista vendetti tutti i Plessi che avevo meno uno che tenni per la mia collezione, un bicchiere di erba. Su sua richiesta, la consegna avvenne a Genova.
In seguito avemmo altre opportunità d'incontro e immancabilmente questo gallerista. teneva a precisarmi di non essere stato ancora capace di vendere un solo dipinto. Era la solita storia che si ripeteva. Magari li avesse ora.
Anche Plessi stranamente non l'ho più rivisto da quando mi consegnò il ritratto che mi aveva fatto con su scritto, bontà sua, una simpatica allegoria.
(Il genialoide- Dicembre 2009)
(Un mio ritratto opera di Fabrizio Plessi - 1978)
Ezio Grida
Può darsi che qualcuno si chieda dopo tanti nomi di artisti noti e meno noti, ma comunque tutti sulla breccia e ben inseriti nel mercato, "ma chi è questo Grida?" ed io li contento subito.
E' mio concittadino, ex insegnante del liceo artistico, un buon amico, oltreché un simpaticone; in ultimo, non certo per ordine di valori, scultore che non esiterei a definire genialoide.
Non vorrei entrare nel merito, ma almeno mi si consenta di dire due parole.
Ezio Grida è uno di quei personaggi non certo semplici, anzi, direi piuttosto contorti e, spero non me ne voglia, ma si da il caso, che pur amando una certa cosa da morire, non sia disposto ad accettarne tutti i rischi.
A volte per la paura del peggio, si rinuncia al meglio.
C'è pure da aggiungere, che le persone più sensibili sono anche le più fragili, a tal punto da rinunciare a priori a quella determinazione ed a quella ambizione, che sono indispensabili per raggiungere certi traguardi.
Ha fatto lo sbaglio, o secondo i punti di vista, ha avuto il buon senso, di amare la sua arte quel tanto da soddisfare sè stesso e basta.
Ha rinunciato ad esserne sommerso, escludendosi a priori ai grandi voli e preferendo accettarla giorno dopo giorno e gioire di quelle piccole, mica poi tanto, intuizioni e di quelle belle immagini che le sue sapienti mani riescono a fare, incidendo nel legno o plasmando la creta.
Ezio è pienamente cosciente di tutto ciò; non se ne lamenta, come non cerca attenuanti, perché è questo il modo che ha scelto di vivere la sua vita.
L'insegnamento ha fatto il resto, nel bene e nel male.
So per certo quanto sia stato bravo nel dare ai suoi allievi il massimo che poteva dare loro, senza chiusure e riserve, ma al contrario aperto al dialogo su qualsiasi espressione artistica.
Nei suoi anni giovanili, non mancano certi peccatucci che sono un po' la prerogativa di alcuni scultori, Michelangelo insegni, non so con quanta fortuna, comunque fatti sempre con un certo spirito goliardico, a chiara dimostrazione della sua indole incline allo scherzo ed alla burla. Basta un esempio per tutti.
Un giorno, dopo tanti anni, arrivò a confessare una di queste marachelle al diretto interessato, il quale però, pur avendo sempre taciuto, da sempre ne era stato al corrente.
In compenso costui, intendo il beffeggiato, sempre dalla viva voce di Ezio, venne pure a conoscenza del finale di questa burla. "Quel fatto che aveva fruttato una cenetta per me e l'amico Mosca, ebbe il suo tragico epilogo quando, subito dopo cena, subentrarono a tutti e due forti dolori di pancia nonché altri inconvenienti che preferisco tacere ...".
"Ben ti sta" avrebbe potuto dire il beffeggiato, ma non ne ebbe il coraggio, forse perché certe cose belle o brutte che siano, fatte da una persona anziché da un'altra, assumono un significato ed un peso diverso.
Ritenne che pronunciando quelle tre parole, sarebbe stata una vera e propria cattiveria, senza ombra di dubbio peggiore di quella che aveva ricevuto lui stesso tanti anni prima. Poi non era già stato sufficientemente punito al suo epilogo?
Così non trovò di meglio che invitarlo nuovamente a pranzo, visto che il primo era andato piuttosto maluccio. Ezio questa volta ne fu entusiasta e con il suo solito umor, confessò di averlo trovato molto più buono dell'altro e, quello che più conta, che non gli aveva causato ... ulteriori disturbi ... all'apparato digerente. (dai primi anni 6O.)
(Racconti senza ritorni- I maestri 1997)
(Un Bassorilievo dello scultore Ezio Grida - 1980)
Mostra di pittura al femminile
Prima di entrare mi sono chiesto, sarà brava quanto è bella? Non credo, sarebbe pretendere troppo.
Altre domanda. Potendo scegliere, avrebbe preferito essere più brava o più bella? Il mio fiuto dice che rinuncerebbe volentieri alle sue dolci sembianze pur di avere ... quel qualche cosa in più.
Ma a quale scopo, mi domando. Non credo ce ne sia bisogno.
Sono entrato ed allora ho capito. Le due immagini per fortuna possono felicemente convivere e sovrapporsi in un alternanza gioiosa di femminilità ed esplosione della natura, da dove, un dolce viso può all'improvviso apparire dal folto degli alberi di un bosco o emergere gocciolante tra un cavallone e l'altro, dal più profondo del mare.
Questo ho visto guardando i suoi quadri e questo mi hanno suggerito di dire.
E' tanto? E' poco? chissà, solo il tempo potrà dare una risposta.
Non credevo che tutto ciò fosse ancora possibile, sia pure dopo qualche anno che non si incontra una persona, invece è successo. Perché nasconderlo, mi ha fatto bene al cuore.
Avevo lasciato una ragazza piena di sogni e di amore per l'arte e mi ritrovo una donna e che donna, forse più scavata nel volto e con qualche impercettibile segno che prima non avevo notato, ma che la rende ancor più' interessante.
A prima vista mi ha fatto una grande tenerezza perché mi è parsa fragile, indifesa, ma è stato sufficiente un attimo che è emersa quella grinta che le ricordavo, anche se ora la manifesta in modo diverso, più pacato e riflessivo, ritengo forse, per la maggior maturità raggiunta.
Mi trovo davanti ad una persona che sa cosa vuole e che ha i mezzi per raggiungere i traguardi che si è prefissato. Mi parla del suo lavoro con entusiasmo e usa un linguaggio dal quale traspare tanta voglia di fare, intendo fare bene e intuisco che ha dentro ancora tante cose da dire.
Ora guardo i suoi quadri e ne ho la conferma; c'è padronanza e niente è lasciato al caso.
Ho di fronte a me delle belle immagini. In esse non scorgo più il mare, solo ed eccezionalmente un piccolo lembo e in lontananza, ma ci sono gli alberi e le piccole pinete per raccontarsi e raccontare, ci sono i cieli e le dimore con quei muri che sanno di mistero e pare vogliano nascondere qualche cosa di cui sono i gelosi custodi, forse degli stessi segreti che ognuno di loro ha raccolto in tanti anni e da sempre rimasti racchiusi al loro interno.
Ma c'è una cosa che lascia una leggera traccia e traspare come un impronta mal celata, è quel velo di tristezza. Forse anche per lei questi ultimi anni non sono passati del tutto indenni e hanno lasciato il segno, un piccolo segno, ma che non poteva non manifestarsi, facendo capolino tra una pennellata e l'altra dei suoi dipinti.
Mi si conceda una piccola riflessione: che una certa presenza estetica od una bella e giovane immagine possano agire negativamente ed influenzare sulla credibilità e serietà del proprio lavoro è una possibilità che può sussistere, non lo nego, ma è solo casuale e non si deve avere certi timori. Non ci sono forse i quadri a chiarire ogni eventuale equivoco?
Ad ogni modo lo confesso, mi sento un poco lusingato per avere compreso, già anni addietro, questo suo problema. Ma rimango sempre dello stesso avviso e ne sono talmente convinto che torno a ripeterlo. "... forse per creare un opera d'arte si deve necessariamente rinunciare ad un'altra gioia degli occhi ? ..." (1994-Giugno 1997.)
(Racconti senza ritorno-Altre storie-1997)
Ruggero Savinio
Penso fossero trascorsi circa due anni dalla sua personale fatta a Lucca nella mia galleria e successiva apparizione giusto per chiudere i conti e riprendersi i quadri invenduti e incassare quelli che avevo deciso ti tenere, che mi telefona: "Ti ricordi il ritratto che avevo promesso? Ebbene è arrivato il momento di sdebitarmi".
Prosegue spiegandomi che si trovava a Poveromo nella villa di suo padre, il grande Alberto
Savinio che tanti anni prima si era costruita e mi invitava a raggiungerlo. Per chi non lo sapesse il loro cognome era De Chirico infatti erano fratello e nipote di Giorgio De Chirico, ma Alberto aveva preferito assumere il cognome della madre, forse per distinguersi dal fratello.
Non me lo feci ripetere due volte e il giorno successivo ci riabbracciammo.
Come era nel suo stile aveva già preparato tutto, cavalletto colori pennelli e pur continuando a chiaccherare cominciò a lavorare.
Mi raccontò del fulmine che aveva colpito la villa durante un temporale alcuni giorni addietro, dei suoi problemi familiari, ma più che altro manifestò la soddisfazione ed il piacere sia dell'accoglienza che della organizzazione della personale che gli avevo fatta anni addietro.
Non era stato tanto merito mio, quanto della sua disponibilità e adattamento come ospite.
Per lui tutto quel poco che facevo non gli era dovuto e lo riteneva una cortesia e un dovere, anche se in modo discreto, farmelo notare. In genere a parte qualche eccezione, mi viene in mente Mario Schifano, in genere per gli artisti che ospitavo tutto era loro dovuto. Lui non era così, debbo dirlo a suo merito.
Ricordo un piccolo particolare che ritengo faccia capire meglio il personaggio.
Nell'allestire la mostra ci furono alcuni suoi dipinti senza cornici e non c'era il tempo
per ordinarle. Per ovviare all'inconveniente, pensai bene di toglierle da alcuni quadri di Giannini della stessa misura che avevo in magazzino. Ruggero ebbe a dirmi: "Tu cosa pensi, forse non sarebbe bene chiedergli il permesso, non vorrei Giannini si urtasse." gli risposi che non era il caso di preoccuparsi perchè quello che stavamo facendo era una prassi normale. Poi, visto la sua perplessità, aggiunsi: "Comunque quelle cornici come i dipinti, sono di mia proprietà. Non potei fare a meno di immaginare un Giannini , ma anche tanti altri artisti, che trovandosi nella medesima situazione, avrebbero avuto la sua stessa sensibilità. Figuriamoci.".
Il tempo passò veloce ma anche il riratto in breve prese corpo e quando Ruggero si ritenne soddisfatto, lo tolse dal cavalletto e prima di consegnarlo me lo dedicò. Mi regalò pure un volumetto che aveva scritto, dal titolo L'età dell'oro e solo allora capii del perchè in quegli anni sul retro di molti suoi dipinti, figurava quel titolo .
(L'età dell'0ro-Gennaio 2010)
(Un mio ritratto opera del pittore Ruggero Savinio)
Damnatio memoriae
Un semplice casuale incontro mi ha illuminato, aprendo una finestra di tanti ricordi, molti dei quali ormai sepolti nell'oblio da oltre cinquant'anni. Ma è su un episodio, impossibile da dimenticare, che si concentrò in quel momento nella mia mente, al punto da sentirmi in dovere di rammentarlo al soggetto di questo incontro in quanto direttamente interessato, il quale ad onor del vero, come del resto sempre faceva, mi aveva salutato molto cordialmente e direi quasi con una certa effusione.
Sto parlando di un amico o presunto tale, un pittore il cui nome preferisco non menzionare se non con l'ausilio di uno dei tanti azzeccagarbugli e indovinelli inclusi, che si trovano nel giornali di enigmistica alla pagina della Sfinge: "Ricorda le tante sorgenti d'acqua, il cui flusso vomita gli ormai spremuti tubetti,dal color vermiglio ".....
Si era nei primi anni sessanta ed io, dato che il mio lavoro dopo circa dieci anni dal suo inizio cominciava a funzionare, ogni tanto mi ritagliavo qualche ora di tempo che dedicavo all'arte, con particolare riferimento alla pittura e iniziando pure a comprare qualche dipinto. Ovviamente conoscendo tutti o quasi i giovani talentuosi artisti lucchesi,
inevitabile che con questo poco più che ventenne, all'epoca militare in servizio di leva a Pisa, ma pressocchè in pianta stabile a Lucca, ci si conoscesse e frequentasse. Anzi direi che ci fu un legame più stretto forse perchè, oltre che simpatico, era sempre gentile e non ultimo, per quel poco che all'epoca potevo capire, mi parve essere tra i più dotati.
Non è che mi potessi permettere gran che se non qualche sporadico dipinto, ma mi arrangiavo pure a vendere qualche sua opera e in tal modo oltre che potergli dare un aiutino, mi permetteva di avere un prezzo di favore su qualche quadro che successivamente avrei potuto comprare.
Non so quantificare nel tempo quanto fosse durato questo sodalizio, ma comunque mi pare abbastanza, direi non meno di un paio d'anni, fintantochè non avvenne il fattaccio.
Dato che aveva avuto una richiesta di dipinti da un italo brasiliano, così mi disse, che stava per ritornare in America e non essendo in condizione di poterlo soddisfare perchè non aveva neppure un'opera finita, mi chiese la cortesia di restituirgli i quattro dipinti che gli avevo acquistato poco tempo addietro, con l'assicurazione che me li avrebbe restituiti nel più breve tempo possibile e facendomi capire, con l'aggiunta di un piccolo omaggio per il disturbo.
Non feci alcuna obiezione ben sapendo che per lui era una occasione da non
perdere. Andai a casa, staccai i quattro dipinti, tutti di notevole dimensione e glieli consegnai, così alla buona come si fa tra amici, fidandomi della sua parola.
Ovviamente c'è un seguito e per chi mi legge non occorrerebbe spiegare
ulteriormente per capirne la fine che comunque, a scanso di equivoci, voglio scrivere: Persi l'amico, poco male, ma con lui persi anche i quattro dipinti.
Procedendo con ordine successe che a seguito di uno dei tanti solleciti da me effettuati, un giorno si presenta nel mio ufficio con quattro quadretti sotto il braccio non più grandi di un foglio di carta che e al di la della misura erano praticamente la brutta copia dello stile, non mi piace la definizione ma non so come altro spiegare, di altro pittore che all'epoca, siamo negli anni sessanta, cominciava ad avere un certo successo.
Glielo dissi, papale papale, che mi sentivo in diritto di ricevere quattro dipinti di mio
gradimento e che quelli che aveva portato non li potevo accettare.
Forse chissà si sarà sentito offeso e così se ne andò via senza proferire parola, con i suoi quadretti sotto il braccio.
Non si fece più vedere fino a quando avendolo un giorno incontrato per strada, alla mia richiesta, fece capire che mi aveva portato i dipinti, ma io li avevo rifiutati e a questo punto non si sentiva più in obbligo verso di me....
Passarono alcuni anni e venni a sapere che aveva allestito una personale alla galleria 33 in via Nuova di Benvenuti "l'Orco" brava persona a differenza del soprannome forse dovuto ad una malformazione alla gola, e con il quale stavo trattando una personale di un pittore inglese "Geoffrej" che poi feci (muovevo i primi passi da professionista) e volli fare un tentativo che poi risultò l'ultimo. Dissi al gallerista che avrei scelto quattro dipinti che il pittore mi doveva da anni e se c'erano dei problemi, venisse a trovarmi in ufficio. Presi i quattro più piccoli in mostra, ma piacevoli e me ne andai.
Dopo qualche giorno venne l'Orco e mi comunicò che l'artista rivoleva i suoi dipinti o l'equivamente in denaro se non da me, da lui medesimo in quanto depositario delle sue opere.
Morale della favole, per non inguaiarlo resi i dipinti e su questo esimio artista, feci una croce grande così. Infatti non ricordo di averlo mai visto in galleria e tanto meno fu invitato, nel mio ventennio da gallerista.
Così ritornando all'incontro di questo fine d'anno a seguito delle mie dimostranze per quel triste
fatto dovute non certo per ricupero del mal torto ma per un legittimo sfogo, ebbe a dirmi che questa storia dell' italo brasiliano non c'è che dire, era una storia a dir poco fantasiosa, lasciando palesemente intendere che forse con l'età tutto può succedere....
Gli antichi romani per chi non si era comportato nella vita con onore, non meritava di essere ricordato neppure dopo la sua morte e gli veniva decretata la Damnatio Memorie e così mi auguro succeda pure a lui, o quanto meno per suo lavoro. Così sia.
Dicembre 2014-Gennaio 2015